Presentazione in catalogo - Dicembre 1975

Non è certo facile la situazione di un artista giovane che si affaccia al mondo della cultura in questi anni di tensioni e di contraddizioni. E non intendiamo riferirci alle difficoltà pratiche, spesso assai gravi, bensì al difficile equilibrio che l’artista deve riuscire a stabilire tra i dati del proprio temperamento individuale e le componenti culturali multiple che in quel temperamento debbono venir integrate. Avventura, dunque, rischiosa, ma anche stimolante. E, nel caso che qui ci interessa di Carlo Ferrari, affrontata con consapevolezza e senso di responsabilità oltreché, ovviamente, con doti rilevanti di autentica vocazione pittorica.
Questa vocazione in Ferrari scaturisce forse da un fondo ancestrale, da quella terra e da quella cultura toscana che tanto hanno dato in questo campo, da vene sorgive profonde e schiette, ricche di umori, ma mai in contrasto con l’impegno intellettuale, con l’orgoglio di respingere ogni spontaneismo di semplice sfogo, anzi sempre ricche del controllo di un’intelligenza curiosa ed acuta. In Carlo Ferrari questo fondo avito si esprime nel senso vivissimo, denso, sensuale, terrigno del colore e della materia pittorica; l’intelligenza nella trasfigurazione che gli oggetti subiscono attraverso la sua visione, sino a diventare allusione o pretesto, mai piatta rappresentazione. Se volessimo riportare l’esperienza di Ferrari a degli esempi paralleli nel gusto contemporaneo, potremmo fare riferimento alla poetica degli “ultimi naturalisti” patrocinati negli anni cinquanta da Francesco Arcangeli, a Morlotti, magari all’”art outre”, con cui Michel Tapié coinvolgeva un nesso di “art brut” e di “informale”, ma sarebbero indicazioni che dovrebbero poi essere abbandonate, dopo averle adoperate per circoscrivere i termini di una topografia della cultura, come più svianti che acconce a far intendere il vero senso, l’autentico sapore dell’arte di Ferrari. Perché in ogni caso Ferrari sa riportare quest’”altro” al “medesimo” cioè, in termini meno ermetici, non rinunciando ne’ alla polemica ne’ alla provocazione, lascia sempre trasparire sotto di esse il fondo schietto e sicuro di una vocazione e di un temperamento di pittore “tout court”.

L’allusione alla forma oggettiva, alla figura o alla situazione ha, in Ferrari, essenzialmente un valore di catalizzazione del fatto luminoso e cromatico, quasi un argine contro il rischio che la libertà “informale” possa ridursi a dispersione, che la lirica si perda nell’indeterminatezza della semplice suggestione. Ed è sempre una forma che è sollecitata dalla luce e che alla luce rimanda come alla propria condizione ottimale, alla garanzia della vitalità intrinseca, al dato materico.

Il tessuto pittorico sotto l’azione della luce si carica di preziosi e intensi agglomeramenti, s’increspa di sapide alchimie, vibra come per una interna fermentazione. Ma, ci teniamo a sottolinearlo ancora una volta, questa libertà materica è sempre sostenuta da una sicura impalcatura strutturale, come da un senso preciso di quella che potremmo chiamare l’architettura del quadro, la sua intima ragione d’essere nella distribuzione e nella calibratura degli spazi. Vi è, in ciò, un solido fondo di tradizione classica, ben percettibile nella libertà stilistica ed inventiva delle più significative esperienze di avanguardia, che non limita quella libertà ma le conferisce un ordine ed una disciplina. Felice equilibrio non troppo comune oggi anche in artisti per altri riguardi molto dotati.

Dunque, temperamento e cultura, in Carlo Ferrari collaborano a configurare una poetica personale e sicura, la cui presa sul fruitore è tanto più intensa quanto meno prevalgono in essa effetti ostentati o capziosi. Una poetica che fa della personalità di questo artista un caso particolarmente interessante e degno di essere seguito con attenzione in quelli che saranno i futuri sviluppi del suo lavoro. Un artista infatti non lo si può veramente giudicare che nell’arco completo di uno svolgimento su tempi non brevi. Ma quanto un pittore farà è sempre contenuto come in germe in quello che ha già fatto, ed è perciò che anche un numero limitato di opere permette di valutare senza esitazioni la portata e l’intensità di un possibile lavoro futuro, in qualunque modo debba poi esso più avanti definirsi. E in questo caso le premesse ci sembrano certe.

Soprattutto vorremmo porre in evidenza come l’opera di Ferrari appaia indicativa della direzione in cui le più giovani generazioni affrontano il problema cha tanto ha assillato, fra gli anni cinquanta e gli anni settanta, gli “operatori”, la critica e il pubblico. La questione, cioè, se gli sviluppi futuri dell’arte avrebbero portato oltre un “punto zero” sempre creduto raggiunto e sempre sopravanzato da provocazioni più audaci, nella direzione di esperienze in cui il termine stesso di arte diventava ambiguo ed incerto, o se si sarebbe assistito ad un recupero dell’immagine, magari esasperata fino al vero più vero, come nell’iperrealismo americano. Artisti come Carlo Ferrari dimostrano, colla testimonianza concreta delle loro opere, come proprio le giovani generazioni o, almeno, fra di esse un manipolo ben sicuro, abbia fede in possibilità diverse da questi estremi che minacciano, malgrado la positività dello sforzo, di perdersi in esperienze velleitarie. Questo, ben s’intende, senza rinunziare ad essere “attuali” e d’”avanguardia” – come precisamente Ferrari è in modo dichiarato – ma senza perdere il contatto col fondo sicuro di una vocazione pittorica che di colore, luce, materia, cioè degli elementi perenni dell’arte del dipingere, dispone come di un libero registro che gli pone a disposizione i mezzi per esprimersi con piena indipendenza e con sicuro accento individuale.

Quanto abbiamo cercato di sottolineare è reso possibile a questo artista per il fervore insieme umile e audace con cui egli si accosta alla tela per fissarvi i fantasmi che la sua sensibilità e un’immaginazione acutamente disponibile gli suggeriscono. Ma si tratta di fantasmi ben concreti. Certo vi è in Carlo Ferrari una vena d’intimismo che lo porta a darci delle cose un’immagine trasfigurata secondo le costanti del proprio temperamento. Ma egli non è mai chiuso in se stesso: anzi questa visione, sofferta individualmente e poi offerta in un’aperta generosità di sigle pittoriche, assume un valore, per così dire, cosmico, una pienezza di accenti in cui lo spettacolo del mondo si fa ambiente ed atmosfera, pienezza di vita estetica in cui esistenza dell’artista e individualità del fruitore si fondono in un accordo di esperienza e di sogno.

Albino Galvano

Presentazione in catalogo - Dicembre 1975

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